Il Disastro dello Space Shuttle Challenger
di Francesca C. IVA L.S.S.
Il 28 Gennaio 1986 in Florida, al Kennedy Space Center sono in atto i preparativi finali per un nuovo lancio dello Space Shuttle Challenger. Dei 4 veicoli della flotta, il Challenger è il più affidabile: nei suoi 3 anni e mezzo di vita ha eseguito il 40% di tutte le missioni dello Space Shuttle, con 9 voli che hanno mandato in orbita 51 astronauti.
Lo Shuttle è formato da 3 motori principali che bruciano quasi 4000 litri di propellente al secondo, alimentati da un grande serbatoio esterno alto 46 m e dai 2 razzi vettori laterali che con le loro 3000 tonnellate di spinta accelerano il veicolo fino a 28000 km/h. Lo Space Shuttle è stata la prima navetta progettata per essere riutilizzata, l’unico veicolo con le ali capace di andare in orbita e in grado di partire come un razzo ritornando a terra come un aereo.
La mattina del 28 gennaio gli astronauti Michael John Smith, Dick Scobee, Ronald McNair, Ellison Onizuka, Christa McAuliffe, Gregory Jarvis e Judith Resnik si preparano al decollo. Il lancio viene ritardato di oltre 2 ore per il freddo, ma alla fine viene dato il via. Sei secondi prima della partenza viene acceso il motore principale, l’enorme spinta fa oscillare il vertice del Challenger di 2 metri, i sostegni che ancorano lo Shuttle vengono sganciati e contemporaneamente vengono accesi i razzi vettori, l’innesco dei motori provoca un'onda d’urto per tutto il veicolo (questo fenomeno viene chiamato “Duang”). Alle 11:28 la venticinquesima missione dello Space Shuttle parte. Quasi immediatamente il Challenger inizia la manovra “cabrata” posizionandosi nella giusta traiettoria per entrare in orbita. A 1000 metri di quota lo Shuttle viene improvvisamente colpito da un forte vento laterale, proprio 30 minuti prima del lancio gli addetti al controllo del traffico aereo della zona di Tampa e Cape Canaveral avevano riscontrato la presenza di una corrente a getto, ma vedendo ancora lo Shuttle sulla piattaforma giungono alla conclusione che la ragione del ritardo sia il vento e quindi non comunicano nulla al controllo missione.
58 secondi dopo la partenza lo shuttle affronta la fase definita di “max cure” in cui la pressione aerodinamica è massima, viaggiando troppo velocemente lo shuttle potrebbe distruggersi. Il controllo missione ordina al Challenger di ridurre la velocità dei motori. 66 secondi dalla partenza il Challenger riceve il cessato allarme e penetra nell’atmosfera superiore. Ora deve accelerare oltre 28000 km/h portando i motori principali alla massima potenza. 73 secondi dopo la partenza il Challenger esplode.
Una volta riemerso dai fumi dell’esplosione ciò che restava dello Shuttle, è stato possibile individuare il compartimento dell’equipaggio che risulta essere ancora intero; viene così individuato il punto esatto in cui la navetta ha colpito l’oceano e, a questo punto, viene avviata una grande operazione di soccorso. Le squadre di salvataggio riescono a localizzare i resti del modulo dell’equipaggio e fanno una scoperta terribile: dall’analisi sui caschi è subito apparso chiaro che, almeno 3 degli astronauti sono sopravvissuti all’esplosione e forse erano ancora vivi al momento dell’impatto in acqua, 2 minuti e 45 secondi dopo.
Una commissione presidenziale ha indagato per 5 lunghi mesi sul disastro per poi scoprire che il razzo vettore destro era difettoso: per capire la natura di questo difetto bisogna analizzare la struttura di questo oggetto, composto da 4 sezioni fissate insieme, con i punti di giunzione connessi da o-ring di gomma sintetica che tengono la pressione. All’accensione il razzo si incendia in meno di un centesimo di secondo e spinge sull’acciaio esterno del razzo vettore. Gli o-ring devono dilatarsi molto velocemente per impedire che il combustibile del razzo fuoriesca dalla giuntura. La commissione scopre che a causa delle basse temperature gli o-ring del razzo vettore destro non si sono espansi come avrebbero dovuto.
I gas di scappamento sono incandescenti, quando lo Shuttle accelera passando per la fase di max cure; una fiamma brucia la struttura che ancora il razzo vettore al serbatoio esterno di combustibile contenente ossigeno liquido e idrogeno; la giuntura si rompe e la parte inferiore del serbatoio si stacca; il muso del razzo vettore colpisce la parte superiore del Challenger ed esplode.
James Chiles, un giornalista americano, che ha seguito molto da vicino la vicenda, pensa che la causa di questa tragedia non sia solo imputabile agli o-ring e alle condizioni atmosferiche, anche perché, se un o-ring fosse stato difettoso, l’esplosione sarebbe avvenuta sulla rampa, invece avviene dopo 73 secondi dal lancio. Il giornalista ha analizzato accuratamente ogni istante dal lancio all’esplosione, notando che nei primi 2 secondi le immagini mostrano uno strano fumo nel retro del razzo vettore destro vicino al serbatoio esterno, più precisamente a 13 metri di altezza: le telecamere rilevano che il fumo va verso l’alto e questa è la prova che un o-ring sta bruciando. Roger Boisjoly, ingegnere che lavorava per la Thiokol, la ditta che ha costruito i razzi per la Nasa, sapeva che il freddo avrebbe messo in pericolo la missione. Dodici ore prima del lancio l’ingegnere ha cercato di fermare la missione portando delle prove secondo cui gli o-ring non sigillavano le giunture perfettamente, ma il lancio fu effettuato comunque. Il fumo inizia ad uscire, ma dopo 2 secondi smette: qualcosa lo ha bloccato. Si vede infatti che il fumo non esce tutto insieme ma con una scia formata da 8 sbuffi. Per innescare il motore viene utilizzata una carica pirotecnica fatta esplodere all’interno del propellente solido. Quando il razzo si accende la forza dell’esplosione fa espandere bruscamente verso l’esterno il rivestimento d’acciaio. Nonostante le giunture del razzo destro siano compromesse, il fumo viene bloccato dagli ossidi d’alluminio prodotti dal combustibile del carburante, che creano un sigillo improvviso fermando la fuoriuscita di fumo. Chiles si sofferma sull’intermittenza del fumo. Nel confrontare le prove vede che c’è una probabilità che il fumo esca alla stessa frequenza del Duang che è di 3 vibrazioni al secondo e dal filmato sembra proprio che il fumo esca con la stessa frequenza. Dunque pare esserci una correlazione tra i due eventi.
Grazie ai dati inviati dallo Shuttle alla stazione di controllo, si evince che a 60,2 secondi dal lancio la pressione del razzo cala da 45 a 43 chilogrammi per centimetro quadrato: si deduce che la falla del razzo vettore destro si sia riaperta ed è per questo che il carburante esce a grande velocità. Nel momento in cui appaiono le fiamme dopo 58,8 secondi, il challenger attraversa la fase di max cure durante la quale è possibile che le forze a cui è sottoposto lo Shuttle possano aver spostato le scorie che bloccavano la falla, ma non si sono mai avute prove a sufficienza. Chiles guardando i video scopre che la scia di scarico ha una forma insolita a zig-zag mentre prima dell’esplosione ritorna diritta. La telemetria indica che lo Shuttle è stato colpito violentemente di lato dopo 58 secondi: il Challenger potrebbe aver attraversato lo stesso strato di aria del jet di linea passato 30 minuti prima del lancio che è stato colpito da un vento di 314 chilometri orari. Se lo Shuttle è entrato in questa corrente è stato colpito con la stessa forza dell’uragano Katrina.
Concludendo possiamo dire che, stando a tutti gli studi condotti sino ad ora, sono stati molti i motivi per il quale il Challenger è esploso e ripercorrendo le fasi di questa tragedia e seguendo le prove scoperte, è stato possibile risalire all’intera catena di eventi che hanno portato all’esplosione dello Space Shuttle Challenger dopo 73 secondi dalla partenza.
Fonti:
focus.it
nationalgeographic.it