Onda su Onda
A cosa servono i radiotelescopi?
di Grazia Maria Giuliani
Onda su onda cantava Paolo Conte nel ’74.
Oltre ad essere il titolo di una delle canzoni più belle della musica italiana, potrebbe essere anche la descrizione breve e concisa alla domanda: “ma come si studia l’universo?”.
Onda dopo onda, segnale luminoso dopo segnale luminoso, cerchiamo di capirne sempre di più.
La differenza sostanziale tra le onde del mare della canzone di Conte e quelle che servono per conoscere il cosmo, è che le prime sono “onde meccaniche”, ovvero perturbazioni della materia, che la mettono in oscillazione, a noi invece in questo momento interessano le onde elettromagnetiche: un nome piuttosto elegante che in realtà indica la luce.
E in modo più preciso ci interessano quelle onde elettromagnetiche, le onde radio, che hanno lunghezza d’onda maggiore di un millimetro, che vuol dire almeno 1000 volte più grande della lunghezza d’onda massima che il nostro occhio riesce a vedere.
Eh sì, perché di tutte le onde elettromagnetiche che popolano l’universo, il nostro occhio è in grado di captarne solo una piccolissima parte, la cosiddetta “luce visibile”.
Si capisce quindi che è necessario, se vogliamo cogliere tutti i segnali che arrivano dal cielo, osservare quest’ultimo con occhi diversi, in grado di captare tutti i fotoni (le particelle che compongono la luce), di qualsiasi natura essi siano, dai raggi gamma, con lunghezze d’onda piccolissime, ma energia enorme, fino appunto alle nostre onde radio.
Per poter osservare il cielo a frequenze diverse, ad energie diverse, servono strumenti diversi. Per individuare i segnali radio si usano i radiotelescopi.
Ma che informazioni riusciamo a captare dal cielo con un radiotelescopio?
Sarebbe interessante formulare questa domanda a Nikola Tesla, fisico che diede un contributo enorme allo studio dell’elettromagnetismo, che fu il primo a registrare dei segnali radio provenienti da nebulose e da stelle giganti rosse quando ancora la radioastronomia non esisteva. Risultato? I suoi dati vennero scartati, per poi essere considerati validi e interessanti solo diverso tempo dopo.
Ad oggi la radioastronomia ha portato a importanti progressi nella ricerca astronomica, e ha contribuito alla scoperta di diverse tipologie di oggetti celesti come pulsar, quasar e radio galassie. Inoltre studi in campo radioastronomico vengono condotti allo scopo di carpire indizi sulla formazione delle molecole organiche che hanno portato la vita sul nostro pianeta.
Su scale più grandi, la radioastronomia è impiegata per la ricerca della materia oscura, che si pensa costituisca l’86% della materia che costituisce l’universo ma ancora non è stata trovata.
Onda su onda dicevamo… Ma come si catturano queste onde?
Come preannunciato serve un radiotelescopio. Non pensate al classico telescopio con specchi e lenti, dove si mette un occhio e si osserva il cielo nelle nitide notti d’estate; pensate piuttosto a una grande parabola con un’antenna al centro… o più parabole ognuna con la sua antenna, che interagiscono insieme per raccogliere ancora più luce possibile. Il segnale raccolto sarà poi inviato ai computer e da lì analizzato con appositi software. In pratica bisogna “tradurre” un segnale che non riusciamo a vedere, in dati scientifici interpretabili.
In Italia abbiamo ben tre radiotelescopi, il più grande dei quali è il Sardinia Radio Telescope (SRT) che con uno specchio di 35 metri di diametro e una massa di più di 3000 chilogrammi, ha come obiettivo, oltre a quelli indicati in precedenza, anche lo studio delle zolle tettoniche della Terra, dunque il processo di deriva dei continenti, e la sorveglianza di asteroidi in possibile rotta di collisione con il nostro pianeta.
Parafrasando Conte… un bel modo per “guardare in faccia il paradiso”, non trovate?